Antica Abbaziale di Sant'Apollinare
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l’influsso architettonico dei cistercensi

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Fu una delle riforme monastiche più rilevanti e perfino spettacolari quella che operò san Bernardo di Chiaravalle nel 12° secolo. Spettacolare anche per lo stile architettonico, volutamente sobrio ed essenziale, che caratterizzò le Abbazie affiliate a Cistercium, in Borgogna (da cui il nome di cistercensi). Inizialmente fu il romanico a dominare, sia nelle chiese, come nei chiostri e all’interno dei monasteri. Ma la particolare apertura e sensibilità del nuovo ordine monastico indusse ben presto ad accogliere le aspirazioni e le intuizioni della cultura gotica che stava nascendo, e che nell’architettura di cattedrali, chiese e monasteri, avrebbe trovato una delle sue più celebri espressioni.

L’impostazione generale che caratterizza la chiesa di S.Apollinare – “nuovissima e inusitata a Trento, anzi in tutta la regione – caratterizzata da una chiesa ad aula, altissima  e luminosa per le numerose finestre gotiche aperte alla sommità della navata”, molto probabilmente si giustifica alla luce degli stretti rapporti che intercorrevano tra Pietro, l’Abate di quel tempo a S.Apollinare, e il vescovo di Trento Enrico di Metz: questi era stato monaco cistercense e aveva portato con sé dal suo Monastero d’Alsazia alcuni monaci del suo stesso ordine, ai quali aveva affidato delicati incarichi nell’ambito della Diocesi. E’ molto probabile che l’idea gotica, così nuova ed isolata, sia arrivata a Trento per questi canali. L’abside piatta, con le due alte monofore (recentemente riscoperte), l’ardito verticalismo della costruzione, oltre alla sobria semplicità dell’insieme, “fanno pensare ad un’idea cistercense, svolta in ambiente nostrano da maestranze lombarde” (Rasmo).


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Col passare del tempo, una volta scomparso quell’abate Pietro che tanto aveva caldeggiato quel progetto, i lavori conobbero interruzioni e sospensioni.  Forse per le ingenti spese (che già avevano costretto i Benedettini ad alienare non poche delle loro proprietà per sovvenzionare l’impresa), forse per “la presenza di una maestranza molto inabile, si dovette ricorre a una soluzione  di ripiego che rese vane le finestre aperte alla sommità dei muri, vano l’altissimo tetto con le cuspidi traforate, vana l’esistenza di progetti che nessuno sapeva realizzare”. Un giudizio, questo, che formulato da un storico esperto oltre che ricercatore appassionato quale fu Nicolò Rasmo, ben difficilmente può essere contraddetto.


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